
I Q’eros sono considerati gli eredi dello sciamanesimo andino pre-ispanico. Il loro grande strumento magico è l’Ayuarisca, il rituale di offerta alla Pachamama, Madre Terra, all’Apu, lo Spirito della Montagna ed agli altri Spiriti della natura quali acqua, luna, fiume e molti altri. Questi rituali sono al tempo stesso anche la massima espressione di devozione agli elementi di natura con i quali i Q’eros sono capaci di fondersi totalmente. A tutt’oggi questo popolo conta meno di 300 famiglie e prendono il nome dalla regione in cui vivono, chiamata appunto Q’ero, estesa per parecchi chilometri quadrati fra i 4000 ed i 5000 metri di altitudine a Nord-Est di Cuzco, l’antica capitale Inka. Sono i diretti discendenti degli sciamani-sacerdoti che seguendo una visione si misero in salvo sulle vette più alte delle Ande quando i conquistadores spagnoli invasero il Perú. Sono sopravvissuti per circa 500 anni con le loro tradizioni culturali intatte, separati dal resto del mondo fino a quando nel 1955, una spedizione arrivò per la prima volta nella loro regione.
I Q’eros sono un popolo di puro Munay, l’energia del cuore. Sono aperti, puri e sorridenti come bambini. Don Américo Yabar fu uno dei primi peruviani meticci ad essere iniziato alla loro cultura sciamanica, dopo che i Q’eros lo scelsero come il loro Chakaruna, il loro “uomo-ponte” verso le altre culture. Fu proprio Américo insieme a Maurizio Balboni a organizzare il mio primo incontro con i Q’eros nel 2001 e fu davvero una grande emozione poter sedere con loro in cerchio. L’incontro avvenne a Chinchero a circa 3800 metri nella Valle Sacra di Cuzco ed a celebrare le offerte rituali fu una delegazione di alcuni sciamani guidati da Don Pasqual, uno dei massimi sacerdoti Q’ero insieme a sua moglie Dona Dominga. Fu una esperienza magica, capace di aprirmi la porta a nuove percezioni e capace di farmi innamorare di questo popolo e di questa cultura.
Alcuni anni più tardi, nel 2006 mi unì all’idea di Maurizio Balboni di organizzare una spedizione ad Hatum Q’ero. Un luogo ancora mitico, poche spedizioni europee prima di noi erano stati li. L’idea di andare a Q’ero mi procurava una eccitazione incredibile, mi sentivo un misto di orgoglio e di timore all’idea di entrare in contatto con quelle montagne così imponenti, cariche di una magia tanto particolare, culla dei Q’eros, uno degli ultimi popoli di sacerdoti sciamani del pianeta. Un camioncino 4X4 anni ’70 si arrampicava con fatica su strettissime strade sterrate che da Cuzco portano fino a Paucartambo e da qui a Chillabamba ultimo paese al confine con quella che viene chiamata la Nazione Q’ero.

Ora ci aspettava un lungo tratto praticabile solo a piedi o a cavallo attraverso sentieri che tagliano gli altipiani e si inerpicano sulle vette più alte delle Ande. Avevamo davanti molti chilometri da percorrere in pochi giorni ad una altezza spesso sopra i 4.500 metri, dai nostri calcoli ogni giorno di marcia poteva variare dalle 7 alle 10 ore, una bella impresa ! La fatica di camminare in salita con poco ossigeno era però ripagata da panorami spettacolari, vallate, altopiani, cime innevate e poi nuvole che scorrevano veloci sopra e sotto di noi, un paesaggio surreale si apriva ai nostri occhi come in un sogno. E come in un sogno scortati dagli Apus (gli Spiriti delle montagne) i nostri piedi camminavano in una dimensione di realtà non ordinaria, in una sorta di mondo parallelo dove tutto era fermo, immobile nel tempo, senza alcuna traccia apparente della civiltà. Il mio fiato corto, le mie gambe pesanti scandivano le ore passate in silenzio, in una lunga meditazione.
Spesso la mia mente volava verso casa così distante da qui, in una specie di elastico tra emozioni e pensieri, tra passato e presente. Sentivo il mio cuore battere forte in gola, i sassi, le pietre che percepivo sotto la mia suola ad ogni passo lungo il sentiero, mi ricordavano che stavamo camminando in una terra sacra. Sparse negli altopiani si vedevano piccole capanne fatte di pietra con il tetto di paglia dove i pastori Q’eros si rifugiano la notte portando al pascolo le loro alpaca. L’ultimo passo a circa 4800 metri ed ecco finalmente il primo villaggio Q’ero, Tandanas. L’Apu Durq’aorko domina il piano su cui si reggono poche casette di pietra, tra i cavalli e le alpaca libere che pascolano.
Gli anziani Q’eros ci accolgono con un sorriso mentre seduti guardano i giovani correre dietro ad un pallone. Bastano qualche sigaretta e poche parole in quechua per creare un contatto, fatto di sorrisi e strette di mano. Un Q’ero mi invita a salire con lui sull’Apu per vedere le aquile ma ho nelle gambe nove ore di cammino e mimando di essere esausto e senza forze lo ringrazio fra le risatine degli altri Q’eros. Poco dopo ecco materializzarsi dal nulla Don Francisco Quispe fra lo stupore mio e quello dei miei compagni di viaggio. Avevo conosciuto Francisco la settimana prima a Cuzco, un incontro molto particolare, fin da subito ero entrato in contatto profondo con lui e si era creato una sorta di legame fra noi. Avevo detto a Francisco che stavamo partendo per Q’ero ma francamente l’idea di ritrovarlo qui era una mia remota speranza. Eppure avevamo viaggiato in camioncino per diverse ore prima di proseguire a piedi … come avrà fatto a essere già qui e a sapere che avevamo raggiunto Tandanas ? Grande regalo dell’universo avere Francisco come guida per il nostro viaggio e così il giorno seguente siamo partiti con lui per Hatum Q’ero, la capitale della nazione Q’ero.

Siamo scesi leggermente di quota ed il paesaggio è tornato ad avere anche un minimo di vegetazione, la nebbia avvolgeva il villaggio, molto più grande del precedente ma del tutto deserto. Hatum Q’ero è la sede rituale dei Q’eros e dei loro sacerdoti. Ammirando questo paesaggio sembrava che la cultura Q’ero fosse rimasta praticamente intatta durante gli ultimi 500 anni. C’era però un edificio l’unico in muratura, un po’ cadente e lasciato andare. E’ la sede della scuola dove i bambini di tutti i villaggi compresi in un raggio di circa venti chilometri, fanno avanti e indietro tutti i giorni. Il maestro ci mostra orgoglioso una cosa incredibile : lo stato ha finanziato un progetto finalizzato alla integrazione dei Q’eros ed ha portato : pannello solare, due compiuter ed una antenna parabolica per la connessione ad internet ! Siamo tutti a bocca aperta, i bambini con il moccio al naso, sporchi di terra con ai piedi dei sandaletti consumati navigano in internet nel mezzo delle Ande ! Facciamo inoltre la conoscenza del figlio di Francisco, Santos, e di suo zio Don Matias Quispe, sacerdote Altomissaioq di Hatum Q’ero e del figlio di quest’ultimo, che come me si chiama Luis. Il giorno dopo viene dedicato ai rituali magici del Despacio alla Pachamama, che viene celebrato tutti in cerchio nella casa capanna di Francisco, mentre la sera Francisco e Matias leggono ad ognuno di noi le foglie della pianta sacra di coca e nella notte arriva il mio turno con mia grande emozione.
Chiediamo agli sciamani Q’eros di leggere nelle foglie per vedere se fossi pronto a diventare un “Paqo”. I Q’eros lanciano le foglie e mi abbracciano dandomi la loro benedizione. Celebriamo appositamente un rituale per la conferma ed il potenziamento del mio Karpay e l’iniziazione a Pampamissaioq (Sacerdote della Terra).
Il mattino seguente si riparte e devo lasciare Matias, Francisco e suo figlio Santos da poco diventato padre ad Hatum Q’ero. Santos mi chiede di tagliare i capelli a suo figlio che in gergo significa diventare il suo padrino. Sono molto onorato di questa sua richiesta ma non posso fermare la marcia dei miei compagni, intendiamo esplorare un’altra parte del territorio Q’ero e per farlo la spedizione deve tornare sopra i 4500 metri per arrivare entro il tramonto al villaggio di Chua Chua.

Farsi sorprendere dal buio della notte in questa regione delle Ande potrebbe mettere in pericolo la nostra stessa vita. Il sentiero andino sembrava flottare sopra una densa nebbia che arrivava dal basso, dal fondo della valle. Tutti i giorni le nuvole salgono dalla torrida selva amazzonica per avvolgere questo luogo remoto e misterioso. Dopo alcune ore di cammino arrivammo un pò in ordine sparso al villaggio di Chua Chua.
Un uomo Q’ero vedendomi arrivare stanco, si alzò e corse verso di me, avvolta nella sua mastana c’era una patata bruciacchiata. Il suo sorriso generoso era un caldo benvenuto in questa fredda terra pietrificata per il gelo. In questa parte del mondo le piante non crescono se non di pochi centimetri. La scarsa vegetazione è perfetta per lama ed alpaca che con la patata costituisce l’unica sussistenza per il popolo Q’ero. In questo posto c’è neve per circa nove mesi all’anno. L’universo degli Inka è costituito da tre mondi : Hanaq Pacha il mondo di sopra, della spirito, Kay.Pacha, il mondo di mezzo, quello delle nostre relazioni, la superficie della terra e Uku Pacha, il mondo di sotto, l’inconscio, l’interno del pianeta.
Gli Inka vedevano questo come un sistema armonico che non ha fine. Dalla terra gli Apu si alzano come le stelle e guidano gli uomini come degli spiriti saggi. Gli Inka credono che tutte le cose, esseri animali e vegetali compreso la Madre terra e gli Apu, siano interdipendenti, in forte relazione e connessione. Tutto questo è parte di una entità completa. Descrivono l’equilibrio di questo sistema attraverso la dualità, uguale al concetto cinese dello Ying e Yang, tutte le cose esistono in coppie complementari, uomini e donne, giorno e notte, cielo e terra. Esite così un parte sinistra detta Lloqe, magica ed intuitiva ed una parte destra detta Pagna, razionale ed analitica. Anche il concetto del cerchio è importante, la terra, la luna, il sole e perfino l’universo è un cerchio.

Lo è anche la nostra vita : Don Francisco mi spiegava che secondo la visione dei Q’eros, dopo la morte l’anima compie un viaggio verso la luna e dopo un periodo di ricapitolazione, torna sulla terra incarnandosi nuovamente. Nella cultura Inka le foglie di coca sono sacre hanno un ruolo essenziale nella vita quotidiana così come nei rituali religiosi. I sacerdoti la utilizzano per comunicare con gli Apu e con Pachamama. La base dei loro rituali viene fatta con i Q’intu che sono tre foglie di coca messe insieme. Queste tre foglie simboleggiano i tre mondi ma anche i tre principali poteri dell’uomo : Munay il potere del cuore, del sentire, Llankay, il potere del fare, dell’agire con impeccabilità e Llachay, il potere della visione e della comprensione. I sacerdoti sciamani utilizzano le foglie di coca per guarire e per predire il futuro. Durante tutto l’arco della giornata i Q’eros così come molti altri popoli delle Ande masticano la coca.
Queste foglie hanno molte proprietà fra cui quella di aiutare il fisico a sopportare l’altura. Le foglie vengono tenute in piccole borse di tessuto colorato o di pelo di alpaca ed hanno un sapore molto amaro. Le ho condivise spesso con i Q’eros, praticamente ogni volta che mi sono seduto con loro, rifiutarle non sarebbe stato gentile.
I Q’eros sono stati autosufficienti per 500 anni e in pratica producono tutto quello di cui hanno bisogno con strumenti estremamente semplici. Intrecciando fili leggeri e colorati, compongono tessuti che riportano sui bordi i disegni ed i simboli del loro credo religioso o aspetti della vita quotidiana. Questo è di grande importanza, visto che non hanno una scrittura. Questi simboli sono una caratteristica dei Q’eros, dal momento che tutte le altre comunità andine utilizzano motivi artistici influenzati dalla dominazione spagnola.

L’alpaca è il miglior amico del Q’ero, quando qualcuno muore viene interrato e si dice che lo spirito di questo animale lo accompagni allo Hanaq Pacha. La lana dei lama e dell’ alpaca è essenziale per coprirsi e proteggersi dal freddo, la loro carne da il cibo per nutrirsi ed il loro grasso viene usato per le offerte sacre o per fare candele. Con il cuoio si fanno corde e calzature, mentre la loro abilità a camminare in altura viene sfruttata come mezzo essenziale per portare legna o patate. Il principio della vita dei Q’erso si basa sulla cooperazione e sullo spirito comunitario : quasi tutto viene realizzato insieme e così come nel vecchio impero Inka, non ci sono terre private. La sopravvivenza di questo popolo è passata attraverso la loro capacità di adattarsi alla vita a differenti altitudini.
A circa 2000 metri possono raccogliere legna o coltivare il mais, da li arrivano fino a 4500 metri per preparare il terreno per la coltivazione delle patate di cui conoscono più di cento varietà. Prima di arare la terra, avvolgono i semi della patata nelle foglie di coca e le interrano con cura pregando : “Pachamama, deposito questo seme nel tuo seno, mantienilo coperto e riparato, proteggilo dal gelo, moltiplicalo perché la mia vita dipende dai tuoi favori.” Alla raccolta delle patate in maggio e giugno partecipa tutta la famiglia. Il resto dell’anno lo passano in piccoli villaggi situati fra i 4000 ed i 5000 metri.
I Q’eros sono stati definiti anche il “popolo delle nuvole” perché nessun altra comunità vive a questa altitudine sulla terra. Il sacerdote Q’ero che parla alla montagna viene educato a questo fin da giovane, con il canto delle donne e la musica dei loro flauti. Il novizio viene scelto per lignaggio, per vocazione perché scelto da altri sacerdoti oppure perché colpito dal fulmine e quindi scelto dagli Apu. I sacerdoti leggono allora le foglie per sapere se il novizio è pronto a diventare un sacerdote o “Paqo” ed ha il permesso degli Apu. Il primo potere che verrà liberato sarà quello del Munay, del cuore.
Una volta “iniziato” con la cerimonia del Karpay, il nuovo sacerdote viene consacrato alla Pachamama e diventa un Pampamissaioq, Sacerdote della Terra. Impara a leggere le foglie di coca, a preparare le offerte sacre per la comunità. Salendo di gerarchia c’è poi l’Altomissaioq, Sacerdote delle Terre Alte, di primo, secondo e terzo livello. Egli si può rivolgere direttamente all’Apu poiché ne sente la voce e ne parla il linguaggio. Il livello più alto del paqo andino si chiama Kurak Akulleq, Sacerdote delle Stelle. Uno sciamano di questo livello si dice che è ormai diventato l’impersonificazione dell’Apu stesso, come si dice accadde per Don Benito Qoriwaman, uno dei sacerdoti andini più potenti del secolo scorso.
La leggenda narra che Don Benito divise in due i suoi insegnamenti, impartendo quelli per il lato destro a Juan Nunez Del Prado, figlio di Oscar Del Prado, l’antropologo che nel 1955 guidò la prima spedizione ad Hatum Q’ero, mentre per il lato sinistro il prescelto fu proprio Americo Yabar. Quando Don Benitò morì verso la fine degli anni ’80, il suo Spirito si convertì nell’Apu di Wasau. Maurizio fu anche il solo italiano e forse europeo, a conoscere direttamente Don Benito.
In questo momento storico, i Q’eros sono in difficoltà e stanno perdendo la loro identità culturale. Il venire a contatto con il nostro mondo così diverso dal loro, ha di fatto sovvertito le regole e messo in pericolo la comunità stessa. I giovani sono ovviamente attratti da ciò che non hanno, dal nostro benessere, dalla nostra ricchezza materiale. Scendono a Cuzco dove sono spesso dei mendicanti o dove il turismo spirituale consente loro di sopravvivere. Il governo stesso stenta a riconoscere l’importanza culturale e la grande ricchezza spirituale dei Q’eros e così questo popolo è stato praticamente abbandonato a se stesso. Secondo questi diretti discendenti del popolo Inka, è giunto il tempo di ri-connettersi con Pachamama e diffondere l’energia del Munay attraverso il pianeta per unire le persone in uno scopo comune: prendersi cura della nostra Madre Terra e quindi anche di noi stessi.
